«Una vita tranquilla, normale? Non l’ho mai avuta, non so nemmeno cosa sia. Ho iniziato a combattere il regime iraniano quando avevo 16 anni, con mio padre, anche lui attivista politico. Facevo il liceo a Shiraz, la mia “città dei poeti”, molti dei miei compagni di scuola sono stati uccisi, ho visto scene che non dimenticherò mai. E continuo a lottare per la libertà del mio Paese». Shahrzad Sholeh è la presidente dell’Associazione donne democratiche iraniane in Italia. A Roma è arrivata nel 1981, subito dopo il diploma al liceo: «Non volevo partire, ma i miei genitori avevano paura che finissi in carcere o fossi assassinata. Hanno scelto di mandarmi qui perché avevano dei conoscenti che potevano ospitarmi. E non me ne sono mai andata, la città mi ha accolta con affetto e qui sono sempre stata bene, fin dall’inizio. Ma sogno di tornare in un Iran finalmente libero».
Il pappagallo che ripete in persiano slogan antiregime
A Roma Shahrzad ha creato anche la sua famiglia: ha incontrato suo marito Davood Karimi, presidente dell’Associazione dei rifugiati politici iraniani residenti in Italia, qui sono nati i suoi figli Azar e Amir, che l’Iran non l’hanno mai visto: «Ma anche loro fin da piccoli hanno partecipato a manifestazioni in Italia, in Europa e anche in America, come quella di sabato scorso a Bruxelles, con migliaia di rifugiati che chiedono pace e libertà per la loro terra». E nella loro casa romana, dove anche il pappagallo parla persiano e ripete slogan contro i dittatori, la vita quotidiana si lega indissolubilmente a quella politica: «La nostra richiesta è che l’Europa metta fine alla sua prassi di accondiscendenza verso il regime e inserisca il Corpo delle guardie della rivoluzione islamica. i passdaran, nella “black list” del terrorismo internazionale»,
«La mia amica incinta uccisa a 24 anni e troppi altri morti»
«Cosa mi manca di più dell’Iran? Potrei dire i dolci al pistacchio, poter visitare la tomba di mio padre, ma soprattutto mi manca la vita che non ho potuto vivere, la libertà che lì non c’è mai stata, la serenità. Nel nostro passato ci sono troppi morti, troppo dolore, come quello per una mia amica di 24 anni, incinta e incarcerata poco dopo che ero partita. Dopo mesi di torture l’hanno uccisa davanti al marito, fucilato subito dopo. Ma di storie così purtroppo potrei raccontarne a centinaia. E anche ora la repressione non si ferma: in questi giorni ci sono stati altri morti nelle manifestazioni in ricordo di Mahsa Amini e 20 detenute della prigione femminile di Varamin che protestavano per le condizioni disumane in cui vengono tenute, che sono state ferite, alcune in modo grave, dai carcerieri».